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- Categoria: Stili di vita, dieta, sport e sessualità
Le ragioni per ricorrervi sono tante quanti sono gli uomini stessi: da chi svolge lavori ad alto rischio ai professionisti dello sport, dai pazienti di vasectomia che un giorno potrebbero cambiare idea. Tuttavia, la maggior parte di coloro che desiderano conservare il sogno di una famiglia sono gli sfortunati giovani maschi prima di sottoporsi a chemioterapia, radioterapia o interventi chirurgici che con ogni probabilità li renderanno sterili. Qualunque sia la motivazione soggettiva che spinge un uomo a richiedere la crioconservazione del proprio sperma, una cosa è chiara: sempre più uomini scelgono di proteggere il loro futuro da una possibile perdita della fertilità, e la crioconservazione del seme offre una protezione sicura, affidabile, provata.
Lo sperma raccolto per la crioconservazione viene sottoposto a spermiogramma (o esame del liquiod seminale) per verificarne la quantità e la qualità, dopodiché viene trasferito in varie provette il cui numero dipende dal volume totale del campione e dal numero degli spermatozoi mobili presenti in ciascun millilitro del materiale raccolto. Il processo di congelamento dura circa 3 ore. Il giorno successivo viene recuperata una singola fiala da sottoporre a controllo del numero e della mobilità degli spermatozoi scongelati.
Il maggior rischio della crioconservazione è rappresentato dall’incapacità degli spermatozoi di conservare la loro vitalità e fertilità durante il processo di congelamento e di recupero, e in linea di massima circa la metà delle cellule spermatiche presenti nel campione non sopravvive al processo.
I dati ottenuti dall’analisi del campione di prova scongelato nelle 24 ore aiuta a stabilire il numero ideale di campioni di sperma che dovrebbero venire crioconservati per ottimizzare le probabilità di una futura riproduzione. Qualunque campione di sperma ottenuto dopo il primo subisce lo stesso identico trattamento: spermiogramma, provetta per il test, scongelamento nelle 24 ore e analisi.
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Caffè assolto: non è cancerogeno. Il suo consumo non rappresenta un fattore di rischio per l’insorgenza di cancro alla vescica. Il verdetto arriva dallo IARC (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul cancro) di Lione che fa parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms).
Un comitato di 23 esperti internazionali ha setacciato circa 1000 studi declassando il caffè da “sostanza possibilmente cancerogena” (gruppo 2B, con le sostanze per cui esistono prove limitate a sostegno dell’associazione con il cancro) a sostanza non cancerogena (gruppo 3, che include sostanze non classificabili in relazione alla loro cancerogenicità, per le quali non esistono evidenze di rischio). Nel 1991 il consumo di caffè era stato associato al tumore alla vescica e la bevanda era stata appunto bollata come un fattore di rischio oncologico.
Gli studi prodotti dopo quella data però non hanno confermato la correlazione tra caffè e tumore alla vescica mentre hanno documentato i benefici derivanti dal suo consumo. Bere caffè avrebbe un effetto protettivo contro il rischio di insorgenza di due tumori: quello dell’utero e quello del fegato. Il parere avrebbe valutato un consumo medio di 3-4 tazzine al giorno su una popolazione normale, ovvero persone che non soffrono di malattie come la cirrosi.
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La chirurgia ricostruttiva e i suoi tanti miracoli, è proprio il caso di dirlo, ora che è andato a buon fine anche il trapianto di uno degli organi più delicati in assoluto, il pene. A qualcuno potrà scappare un sorrisino o una battuta, ma non c’è niente da scherzare su questo che, proprio come l’organo in questione, è un argomento decisamente delicato.
Il primo trapianto di pene al mondo è stato effettuato lo scorso dicembre in Sudafrica su un paziente di 21 anni che aveva perduto l’organo a causa di una circoncisione rituale finita male. Tre anni fa, al momento dell’insorgere delle complicazioni dopo la circoncisione, i medici erano riusciti a salvare solo un centimetro del pene originale.
Ora il ragazzo ha un pene nuovo e perfettamente funzionante, in ogni suo aspetto. A soli tre mesi dall’intervento, ha infatti riguadagnato la perfetta funzionalità dell’organo, sia dal punto di vista urologico che sessuale e i medici pensano che potrà recuperare nel giro di un paio di anni la sensibilità al 100%. A conferma della sua perfetta funzionalità la recente dichiarazione della compagna del paziente, incinta di qualche mese. L’uomo con il pene trapiantato dunque diventerà padre, sembra incredibile.
L’operazione, durata nove ore, è stata possibile grazie all’organo di un donatore deceduto. La tecnica usata dalla squadra di medici dell’università di Stellenbosch è molto simile a quella utilizzata per i trapianti facciali, la sfida in questi casi è quella di riuscire a unire tra di loro vasi sanguigni e nervi del diametro anche inferiore ai 2 mm.
Ora che l’equipe sudafricana ha dimostrato che un intervento di questo tipo è possibile e che è possibile restituire un organo funzionante al 100%, si apriranno sicuramente nuovi scenari per questo tipo di chirurgia andrologica. Altri pazienti sono già in lista per ricevere un pene nuovo ed entrare così nel primo studio pilota per perfezionare l’intervento.
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Negli Stati Uniti è stato individuato il primo super batterio resistente a tutti gli antibiotici.
Isolato nell'urina di una paziente, è immune alla colistina, ultimo baluardo contro i microbi che sopravvivono alle altre terapie. Siamo entrati nell'era post-antibiotica?
Il giorno tanto temuto dai microbiologi americani è arrivato: le autorità sanitarie statunitensi hanno segnalato, giovedì 26 maggio, la presenza sul loro territorio del primo caso di un super batterio resistente ad ogni antibiotico conosciuto.
Nell'urina di una donna di 49 anni della Pennsylvania è stato infatti isolato un ceppo di Escherichia coli immune alla colistina, "l'ultima spiaggia" degli antibiotici, una sostanza utilizzata per annientare i batteri più difficili da neutralizzare. La colistina è fondamentale nel trattamento dei cosiddetti nightmare bacteria, i "batteri incubo" dal nome scientifico di CRE (batteri resistenti ai carbapenemi), che uccidono il 50% di chi viene contagiato, e si trasmettono soprattutto negli ospedali. La paziente statunitense sembra rispondere bene ad altri antibiotici, ma la preoccupazione degli scienziati è che il gene mcr-1, che rende quel batterio resistente alla colistina, possa trasmettersi ad altre specie batteriche che hanno già sviluppato resistenza ad altri trattamenti. È la prima volta che un ceppo batterico resistente alla colistina viene isolato negli Stati Uniti: la paziente, per giunta, non usciva dal territorio USA da almeno 5 mesi. Le infezioni delle vie urinarie sono molto frequenti nelle donne dopo una certa età e molto spesso sono asintomatiche e non necessitano di un trattamento specifico. Questo caso sembra essere diverso oltra al fatto che non sembra esserci una cura adeguata.